Il Concilio Vaticano II Il Concilio Vaticano II

Il germoglio del Concilio, sessant’anni dopo

L’annuncio della fede e la coscienza di una Chiesa che sa di non risplendere di luce propria

di Andrea Tornielli

In una memorabile omelia, pronunciata l’11 maggio 2010 a Lisbona, Benedetto XVI aveva osservato: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia e ciò, purtroppo, è sempre meno realista”. È proprio questa constatazione, che fa i conti con la realtà della secolarizzazione e della scristianizzazione, all’origine del Concilio Ecumenico Vaticano II di cui abbiamo appena celebrato il sessantesimo anniversario dalla sua conclusione. Già in molti, dentro la Chiesa, fin dai primi anni del Novecento, avevano avvertito la difficoltà crescente nella trasmissione della fede nelle società della prima evangelizzazione, quelle della cosiddetta “cristianità”. Una difficoltà che non si scontrava di per sé con un’avversione aperta e frontale al cristianesimo, quanto piuttosto con un disinteresse. È la percezione acuta che ha l’arcivescovo Giovanni Battista Montini quando a metà degli anni Cinquanta arriva a Milano e si ritrova a fare i conti con ambienti sempre più impermeabili e distaccati rispetto all’annuncio evangelico: quello operaio, quello della finanza, quello dell’alta moda. La grande domanda, che sta all’origine della coraggiosa decisione di Giovanni XXIII di indire il Concilio, e della sapiente conduzione di Paolo VI che compie il miracolo di portarlo a conclusione praticamente all’unanimità, è dunque una sola: come si torna ad annunciare il Vangelo agli uomini e alle donne di oggi? Era evidente, allora, che la “cristianità”, caratterizzata da società imbevute di cultura cristiana in ogni loro espressione, era al tramonto, e che la trasmissione della fede aveva bisogno di linguaggi nuovi per riscoprire ciò che è davvero essenziale e per testimoniarlo al mondo.

Nei decenni successivi alla conclusione del Vaticano II i suoi effetti sono stati al centro di dibattiti e polemiche ideologiche, molte delle quali non ancora sopite, tra chi imputa al Concilio la crisi della Chiesa e la stessa scristianizzazione, e chi pensa che la soluzione sia adattarsi al mondo. I primi non si accorgono che la crisi era cominciata ben prima del 1962 e continuano a inseguire il sogno di un’impossibile restaurazione, offrendo l’immagine di una Chiesa assediata la cui unica difesa è quella di chiudersi in un fortino. I secondi vagheggiano riforme partorite a tavolino dagli esperti per adattarsi ai cambiamenti della società ma che non partono dall’esperienza quotidiana del popolo santo di Dio.
Ciò che l’ultimo concilio ha insegnato e che si ritrova nel magistero dei Successori di Pietro dal 1965 a oggi, è ben sintetizzato nelle prime righe della Costituzione dogmatica Lumen gentium: “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa”. Si ritrova qui, un nucleo centrale che non si può mai dare per scontato nell’agire ecclesiale, neanche in quello post-conciliare, neanche in quello dei giorni nostri. La Chiesa non risplende di luce propria, non irradia una luce propria, non è la fonte dell’annuncio. La Chiesa può soltanto cercare di essere trasparente, cioè di far trasparire, balenare, la luce di Cristo. È la luce di Cristo che risplende sul volto della Chiesa.

Questa constatazione, così evidente nel magistero dei Padri della Chiesa, è densa di conseguenze. Una Chiesa che sa di non essere la fonte né la “padrona” della fede, fugge infatti ogni autosufficienza e autoreferenzialità, non vive con lo sguardo rivolto al passato, non cerca il puntello dei potenti di turno, non cerca di imporre la fede, non la fa consistere nelle regole, nelle tradizioni, nelle strategie o nei progetti umani, sa riconoscere le proprie inadeguatezze chiedendo perdono, dialoga con tutti nella libertà, va alla ricerca del Volto del suo Signore lasciandosi evangelizzare dai lontani e lo riconosce là dove liberamente si manifesta. Vive la misericordia, l’accoglienza, la vicinanza ai poveri e agli scartati, l’impegno per la pace e la giustizia come un modo per essere sale della terra e far risplendere la luce di Cristo nel mondo, testimoniando la logica di un Dio che – ci ha ricordato Leone XIV nella cattedrale di Istanbul lo scorso 28 novembre - “ha scelto la via della piccolezza per discendere in mezzo a noi”, che “non si impone attirando l’attenzione” e che dunque non ha bisogno dei nostri proclami, delle nostre invettive o delle nostre strategie per farsi conoscere. Parlando del Regno di Dio e del modo in cui si manifesta in Gesù Cristo, il Vescovo di Roma all’Angelus del 7 dicembre scorso ha detto: “Il profeta Isaia lo paragona a un germoglio: un’immagine non di potenza o di distruzione, ma di nascita e di novità. Sul germoglio che spunta da un tronco apparentemente morto, inizia a soffiare lo Spirito Santo con i suoi doni. Ognuno di noi può pensare a una sorpresa simile che gli è capitata nella vita. È l’esperienza che la Chiesa ha vissuto con il Concilio Vaticano II, che si concludeva proprio sessant’anni fa: un’esperienza che si rinnova quando camminiamo insieme verso il Regno di Dio, tutti protesi ad accoglierlo e a servirlo. Allora non soltanto germogliano realtà che parevano deboli o marginali, ma si realizza ciò che umanamente si sarebbe detto impossibile”.

Questa Chiesa che vive nel mondo il mistero di Cristo, è già in atto in tante persone e comunità, come ci testimoniano le storie di speranza emerse in quest’anno giubilare. Sessant’anni dopo siamo ancora alle fasi iniziali del percorso che il Concilio ci ha indicato e che siamo tutti chiamati a far germogliare.

Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui

09 dicembre 2025, 14:30