Argentina, il vescovo Giobando: il Papa araldo di pace e giustizia
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Ricordi d'infanzia, amicizia di confratello, sostegno a distanza, appello alla Chiesa: c'è tutto questo nelle parole e nei ricordi che monsignor Ernesto Giobando SJ, vescovo della Diocesi di Mar del Plata, ausiliare di Buenos Aires dal 2014 al 2024, condivide con i media vaticani. Accade mentre nella capitale - nel monastero di Santa Catalina, luogo significativo di dialogo, dove nacque la rivista della Chiesa argentina Vida Nueva proprio pochi mesi prima dell'elezione di Bergoglio - si leva oggi, 13 marzo, una preghiera interreligiosa per la pace e la salute del Papa organizzata da varie associazioni ecclesiali (Casacomune, Sant'Egidio, Focolari, tra gli altri) che già dall'inizio del ricovero del Pontefice si sono radunati per esprimergli vicinanza e affetto. In un'epoca di forti polarizzazioni ideologiche, il Magistero di Francesco, come sottolinea il presule, è quanto mai provvidenziale e necessario da mettere in pratica.
Quale tratto del pontificato di Papa Francesco le piace oggi sottolineare?
È stata una sorpresa quando Francesco è stato eletto Papa, perché in realtà era già pronto per andare in pensione, e la Chiesa, i cardinali, hanno visto in lui una persona che poteva raccogliere le sfide dell'evangelizzazione di allora e anche di oggi. Ecco perché Francesco, la prima cosa che vuole esprimere attraverso l'Evangelii Gaudium è come evangelizzare il mondo di oggi. Attraverso la gioia, che non è solo una disposizione dell'umorismo, ma un dono dello Spirito Santo. La gioia è uno dei frutti dello Spirito Santo ed è una gioia che rappresenta la buona notizia, da qui il nome dell'Esortazione apostolica. Il Vangelo è una buona notizia, il Vangelo è gioia e credo che questa sia la chiave dell'intero pontificato di Papa Francesco: come annunciare il Vangelo in questo mondo difficile, sapendo testimoniare la gioia spirituale come dono dello spirito.
Eccellenza, quale augurio desidera fare al Pontefice in occasione di questo anniversario?
Prima di tutto la salute, che il Papa possa riprendersi e continuare a dare la sua testimonianza di dedizione alla Chiesa. Spero che il Papa possa continuare finché Dio glielo permetterà ad accompagnare e a “fasciare” la Chiesa in questo tempo. Molte persone lontane dalla Chiesa, non praticanti o non cattoliche, mi hanno detto in varie circostanze che ci sono pochi leader nel mondo, uno di questi è Francesco. Penso che sia un leader perché ancora oggi le persone importanti di questo mondo, possiamo chiamarlo così, vanno a trovarlo e i poveri si fidano di lui. Il suo ministero petrino è un segno di Dio, perché non è solo per i potenti, ma è un segno per i più umili, per i più piccoli, per i quali il Papa ha un cuore enorme. E un altro segno è anche come il mondo ha pregato e sta pregando per la guarigione del Papa. È un segno molto eloquente.
Tra l’altro il cardinal De Mendonça giorni fa ha parlato di Magistero della fragilità…
Quando si è deboli, si è forti, dice San Paolo. Quindi è nella fragilità che si vede la forza di Dio ed è anche un segno che non ci si deve ritirare finché Dio non lo dice. Il mondo sta attraversando circostanze molto gravi e tutti noi dobbiamo essere testimoni fino alla fine. Mi è piaciuta molto la prima meditazione degli Esercizi spirituali, tenuta dal Predicatore pontificio, che ha detto: la fine è l'inizio. Un'espressione molto bella.
E che la vita eterna comincia qui, come ha ricordato in questi giorni negli Esercizi spirituali alla Curia il predicatore della Casa Pontificia...
Sì, la vita eterna comincia qui. Non possiamo perdere di vista il fatto che è un vero segno di speranza dell'Anno Santo che dall'ospedale ci dicano che il Papa ha passato “una notte serena”, “è migliorato”. Siamo come i familiari e gli amici in sala d'attesa, e credo che questo sia un segno di speranza.
Il Papa peraltro non ha fatto mancare, perfino dall’ospedale dove è ancora ricoverato, il suo messaggio di vicinanza alle vittime dell’alluvione a Bahía Blanca…
È stato presente con un telegramma che ha inviato per accompagnare le vittime e il disastro dell'alluvione. Circa 15 persone sono già morte e altre risultano disperse, per questo il Papa, anche nel pieno della convalescenza, ha ammirevoli espressioni di vicinanza.
Non perde di vista nulla di ciò che accade nel mondo, soprattutto nei contesti di guerra…
La guerra è molto dolorosa per lui come per tutti, ma lui è anche un araldo della pace, un messaggero di pace fino in fondo.
Voi condividete il carisma ignaziano essendo entrambi gesuiti. Secondo lei quale caratteristica della spiritualità del fondatore della Compagnia di Gesù è meglio rappresentata nel pontificato di Francesco?
Credo che, in una frase sintetica, sia la capacità di scoprire Dio in tutte le cose. Questa era una grazia per Sant'Ignazio e penso che sia una grazia per il carisma gesuita. Essere in grado di scoprire il Signore in tutte le cose, perché questa scoperta di Gesù ci porta anche a un'opzione radicale: non possiamo rimanere tiepidi, dobbiamo andare in profondità perché Gesù è andato in profondità. E questo andare in profondità lo considero il magis ignatianus, che significa: “alla maggior gloria di Dio, ma anche al maggior servizio, alla maggior lode”, e - come ha detto il Papa in Gaudete et Exsultate - non come “pelagiani”, ma come cercatori della volontà di Dio, che è molto diverso.
Ci può ricordare qualche episodio emblematico dell’amicizia con Bergoglio?
Andiamo indietro a cinquant'anni fa. Avevo 15 anni e Bergoglio, quando era Provinciale dei gesuiti in Argentina, andò nella mia città, a Santa Fe, dove c'è una scuola, e io gli dissi che volevo diventare gesuita e lui mi disse: quanti anni hai? Gli ho detto 15, e lui mi ha detto: “Sei ancora troppo giovane, vieni a trovarmi l'anno prossimo”. E fu così che ogni anno che frequentavo il liceo chiesi a Bergoglio - quando veniva a Santa Fe - che volevo essere un gesuita. Per questo motivo, una volta mi trovai a dire che gli chiesi di entrare nella Compagnia con i pantaloncini, perché ero davvero molto piccolo. Ma se mi avesse ammesso, e i miei genitori me lo avessero permesso, sarei entrato nella Compagnia davvero a 15 anni, avevo già deciso e Bergoglio ricorda sempre questo episodio con gioia.
Eccellenza, che stagione vive la Chiesa in Argentina?
Viviamo in un momento difficile, un momento in cui la situazione sociale è grave, anche se economicamente si è attenuata l'inflazione, che è la tassa più grave per chi dispone di minori risorse. C'è una situazione di grande povertà, e soprattutto c'è una mancanza di speranza. Credo che questa sia proprio la sfida per quest'Anno Santo: dobbiamo rafforzare la speranza e per questo abbiamo bisogno di dialogo, che è molto difficile: dialogo nella leadership, ci sono molte lotte, molti scontri. Dobbiamo essere persone che generano almeno lo spazio per il dialogo. Credo che l'Argentina non abbia letto e non abbia messo in pratica quello su cui Papa Francesco ha insistito tanto in questo periodo. Non è perché il Papa verrà o non verrà in Argentina... quello che dobbiamo fare come Chiesa in Argentina, sapendo che abbiamo un Papa che ci rappresenta, è mettere in pratica i suoi insegnamenti, cosa che in effetti stiamo cercando di fare, ma abbiamo ancora molta strada da fare.
Tuttavia, un motivo di speranza che arriva dalla società argentina lo possiamo intravedere?
Penso che il dialogo sia una necessità e il segno della solidarietà di questo popolo, perché in Argentina c'è una grande capacità di solidarietà. Quando succede un disastro, come quello di Bahía Blanca, tutto il Paese si attiva per aiutare e penso che questo sia un segno di speranza, che non dobbiamo solo affrontare l'emergenza, ma anche pensare a come andare avanti a lungo termine, non a breve termine, come a volte ha detto Papa Francesco. Dobbiamo avere un orizzonte ampio per poter cercare un futuro per il Paese che sia più giusto ed equo per tutti.
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