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Tonino Zugarelli, il riscatto dell’ultimo che diventa maestro

Tra umanità e fede, a tu per tu con un atleta che ha scritto la storia del tennis italiano con la vittoria in Coppa Davis del ’76 e oggi insegna la tecnica ai giovani con l’umiltà di chi ha assaporato la gloria venendo dal nulla

Fabrizio Peloni - città del Vaticano

Il riscatto dell’ultimo. E già, come altro si potrebbe raccontare in due parole la storia di Antonio Zugarelli? Per tutti “Tonino”, è una leggenda del tennis e non solo perché ha vinto la Coppa Davis nel 1976, in Cile, in squadra con Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci. E con Nicola Pietrangeli capitano non giocatore e Mario Belardinelli a far da “anima”.

“Romano de Roma”, classe 1950, è cresciuto nella povertà di una casa abusiva ai Colli della Farnesina con il tetto in lamiera e con un padre che, dopo la nevicata del 1956, metteva trappole per catturare passerotti e avere carne a tavola. La Roma del Colosseo l’ha vista a 16 anni, dribblando scazzottate e “giri” poco raccomandabili.

Tonino ha iniziato a giocare a tennis «per caso», dopo una delusione nel calcio nonostante fosse stato scelto per la Roma da Oronzo Pugliese in persona. In realtà cercava di racimolare qualche soldo onestamente, facendo lavoretti nei prestigiosi circoli sul Lungotevere. Il tennis, allora, era passatempo per l’élite. Giocando con le racchette buttate via dai ricchi Tonino è arrivato a vincere la Davis. E a essere il numero 19 del mondo, a faccia a faccia («a volte li ho anche battuti» ricorda) con Björn Borg, John McEnroe, Jimmy Connors, Guillermo Vilas, Ilie Năstase, Rod Laver, Arthur Ashe (che nella sua autobiografia ne ha elogiato la demivolée ), John Newcombe (che gli ha copiato i baffi).

Ancora oggi, alla soglia dei 76 anni, Tonino — proprio lui, uno dei fab four del tennis italiano anni ’70 — scende in campo ogni mattina presto (alle 7.30 accende personalmente le luci) per insegnare a centinaia di adolescenti posizioni e impugnature: «Quando ho iniziato non c’era il professionismo e i soldi erano pochi, persino le trasferte negli Slam erano a carico nostro, a volte si perdeva apposta perché non potevamo permetterci gli alberghi: ho sbagliato epoca per fare il tennista...».

Ogni giorno è al Foro Italico, nel santuario del tennis. «Qui mi sento a casa da 55 anni» confida. È direttore tecnico della scuola tennis. Ma non insegna solo dritti e rovesci, battute e smorzate. Propone, con semplicità, uno stile di vita. Nel 1977, sempre qui al Foro Italico, Tonino ha giocato una storica finale degli Internazionali d’Italia con Vitas Gerulaitis, altra icona del tennis. L’anno prima a Roma aveva vinto il suo amico Panatta. Tra la gente di Trevignano Romano, sul Lago di Bracciano, dove Tonino abitava (e abita) si narra che la mattina della finale si fosse messo a costruire un muretto nel circolo che gestiva. Altro che mental coach...

E poi quel match perso al tie-break del quarto set. Gerulaitis era spiazzato ma la pallina colpita da Tonino con una volée smorzata ha “danzato” per alcuni centimetri sul nastro della rete senza oltrepassarla. Fossero andati al quinto... «Non ho rimpianti» assicura. Anzi, le sue sono parole di gratitudine: «Il tennis mi ha dato e mi sta dando tantissimo» dice. «Vero, se avessi guadagnato come il numero 19 di oggi... forse non avrei bisogno di alzarmi presto e percorrere quei 50 chilometri da Trevignano al Foro italico. Ma sono 50 chilometri importanti per me: in macchina prego, anzi parlo con il Signore. A volte mi arrabbio ma so che ha sempre ragione Lui… Cerco di essere un buon cristiano».

Proprio a Trevignano, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del nuovo millennio Tonino ha inventato quella che oggi si chiama — Andre Agassi e Nick Bollettieri insegnano — una Academy. Un vero e proprio “laboratorio di speranze” dove ho avuto l’opportunità di vivere parte della mia adolescenza. Quasi per caso, sedicenne, ho deciso di abbracciare uno sport “solitario”, forse alla ricerca di una naturale autodeterminazione. In quel delicato spicchio chiamato adolescenza gli incontri determinano la strada che poi si intraprende.

Tonino per me non è stato solo “il maestro di tennis”. Vivevo in una sorta di anestesia, un torpore all’interno delle mura domestiche, quasi per non dover pensare e accettare lo spegnimento graduale del mio eroe, il mio papà.

Alla sua morte, con i miei vent’anni mi sono reso improvvisamente conto di essere ancora immaturo e di non poter più fare affidamento e trarre insegnamento da chi rappresentava l’unico esempio per tutti i conti che la vita, dall’oggi al domani, mi stava presentando all’improvviso. Mi sentivo totalmente inadeguato. E la mia salvezza è stato proprio il tennis, ancor più delle grandi amicizie. La prima cosa che ho avuto il coraggio e la forza di fare è stato “tirare due palle” con Francesco, il figlio di Tonino. Non dimentico quella prima mezz’ora in campo.

Solo con la racchetta in mano mi sentivo in pace con me stesso. Per circa un anno mi sono buttato nel tennis, abbandonando anche l’università. Ho chiesto al “mio maestro” di aiutarmi in questo mio “desiderio di salvezza” anche se le mie disponibilità economiche erano ridottissime. Per tutta risposta Tonino mi ha aperto le porte del suo circolo sportivo. Mi ha aperto soprattutto la porta di casa sua: ho pranzato insieme con sua moglie e i suoi figli. Non mi ha chiesto nulla in cambio, solo la disponibilità a giocare con chiunque capitasse. Insomma, un burbero d’altri tempi che ha segnato la mia strada.

Tonino non è mai stato un uomo di troppe parole, neppure quando ha vinto la Coppa Davis. Mi ha fatto capire che l’acquisizione di un colpo, così come di un aspetto tattico, hanno bisogno di maturazione. Una lezione che vale per la vita. E così quando in partita ero in difficoltà i miei occhi puntavano Tonino, quasi a implorargli: «Ti prego, fammi vedere cosa devo fare!». Ma lui zitto, neanche un consiglio. Ho capito perché: voleva che fossi io a trovare una soluzione che fosse così veramente mia. Di nuovo, una metafora per la vita. Non è solo questione di tennis.

Se Tonino mi avesse ordinato cosa fare in campo, avrebbe creato una dipendenza, un limite alle mie capacità, dentro e fuori dal tennis. Una dinamica che, crescendo, mi ha permesso di affrontare problematiche ben più importanti, consapevole di quanta connessione ci sia tra ciò che succede nella vita e all’interno di un campo da tennis: sia una semplice partita tra amici o la finale di Wimbledon (proprio dove Tonino ha vinto due partite memorabili consentendo l’accesso alla finale di Davis).

«Fabrizio, avresti potuto essere un professionista del tennis ma le strade della vita le conosce solo il Signore». Parole di un maestro. Tonino me le ha sussurrate, pochi giorni fa, al Foro Italico (e dove sennò?), quando lo abbiamo intervistato con Giancarlo La Vella e Giampaolo Mattei per il programma “Storie di sport. Athletica Vaticana racconta” su Radio Vaticana-Vatican News. Parole di un maestro che non insegna solo a tirare un bel colpo. Credo che il suo segreto sia nella umiltà di chi è stato povero (e non se lo dimentica) e nella sua esperienza di fede e di preghiera.

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22 dicembre 2025, 14:39