Religiosi in aree di conflitto, “peacekeeper” spesso dimenticati
Roberto Paglialonga - Città del Vaticano
Ci sono “operatori di pace” che non hanno bisogno di vincere un concorso, avere un contratto, ricevere un incarico, per fare quello che fanno. Semplicemente “vivono”, stando in mezzo alla gente – alle popolazioni – cui la missione li ha destinati, condividendo gioie e sofferenze. Si trovano nei luoghi spesso più poveri e dimenticati della terra, lì dove scoppiano furiose crisi umanitarie o conflitti sanguinosi. Non provano a mettere in salvo le proprie vite, perché la loro vita è donata agli altri. Non lasciano il campo. E, nella maggior parte dei casi, rimangono anche dopo che la bufera è passata, per aiutare a ricostruire le macerie, materiali e spirituali. Sono rappresentanti papali come i nunzi apostolici, e vescovi locali, certo, ma anche – e soprattutto – semplici religiosi, preti, suore, missionari, di cui quasi mai si sente parlare quando genericamente ci si chiede “ma cosa sta facendo la Chiesa, lì?”, come se questa fosse un centro orientato esclusivamente su Roma, e non piuttosto una comunità universale che resiste e pulsa in ogni angolo del pianeta.
Il libro premiato dagli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede
A loro, in particolare – sebbene si parli anche di imam, archimandriti e pope ortodossi – Andrea Angeli, peacekeeper italiano di lungo corso, con oltre 30 anni di carriera nelle missioni di pace delle Nazioni Unite dislocate nei più infuocati scenari internazionali, dal Cile di Pinochet al conflitto in Bosnia ed Herzegovina, dall’Iraq post-guerra con l’Iran al Kosovo, da Timor Leste alla Cambogia, ha dedicato il libro Fede, ultima speranza. Storie di religiosi in aree di conflitto (Rubbettino). Un racconto non solo della sua esperienza “on the field”, ma anche una testimonianza del servizio svolto da chi, nell’aiuto al prossimo, è mosso esclusivamente dalla propria fede e religione, oltre che dalla propria coscienza.
Religiosi “peace-keeper” che rimangono dietro le quinte
“Le missioni di peacekeeping – dice in un colloquio con i media vaticani in occasione del "Premio Letterario degli Ambasciatori presso la Santa Sede", ricevuto mercoledì 15 ottobre presso l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede – sono operazioni complesse di cui spesso si vede solo la parte che fa magari più notizia. Ma dietro c’è un mondo fatto di chi le crisi le anticipa, nel senso che è in grado di rendersi conto prima di tutti del loro svilupparsi e cerca, quindi, di evitare il peggio; e di tante persone che rimangono dietro le quinte, lasciando ogni protagonismo a chi viene dispiegato sul terreno quando la crisi è scoppiata, e si fermano anche dopo, nel momento della ricostruzione. Tra loro moltissimi sono religiosi, che non stanno lì per periodi limitati, ma in quei luoghi si giocano la vita”. E che, in casi molto numerosi, sono già sul terreno prima ancora che una missione di pace arrivi: “Tu sai che si tratta di persone di cui ti puoi fidare, che ascoltano e parlano con franchezza, dicendo quello in cui credono e che pensano, non quello che fa comodo”. E non c’è dubbio, aggiunge per averlo sperimentato direttamente, che “l’imparzialità, la disponibilità ad aiutare tutti, senza alcuna distinzione sociale o religiosa” sia parte del dna “della Chiesa cattolica” e dell’essere cristiani.
Le “suore-rambo” in Bosnia ed Herzegovina
Ne ha visti tanti in azione, Angeli. Anche qualche “suora-rambo”, come le chiama lui. “Liberija Filipovic, conosciuta in Bosnia ed Herzegovina nel periodo della guerra dei primi anni Novanta, mi è rimasta particolarmente nel cuore”, dice. “Una suora croata, appartenente alle francescane di Gesù Bambino, capace di saltare letteralmente da un carrarmato a una jeep, sempre pronta ad aiutare chiunque ne avesse bisogno. A un certo punto riuscimmo a farle avere il tesserino stampa “UN Press”, che serviva per potersi muovere con maggiore libertà e passare più agevolmente i controlli ai checkpoint: ma lei se lo guadagnò, scrivendo diversi articoli per una testata canadese. Dove sta ora? In un altro dei ‘teatri’ più drammatici: Haiti”.
La croce che “vale più di un passaporto diplomatico”
All’esperienza nel conflitto serbo-bosniaco, l’autore dedica la maggior parte del libro, compreso un aneddoto che riguarda il cardinale Camillo Ruini, che del libro firma la prefazione, allora vicario della diocesi di Roma e presidente della Conferenza episcopale italiana. “Dopo aver celebrato la messa dell’Epifania a Sarajevo, dove arrivò con una delegazione della Cei, non riuscì a prendere l’ultimo volo militare per Falconara perché gli ortodossi, per festeggiare il loro Natale, si misero a sparacchiare in aria nei pressi della pista. Dovemmo organizzare all’ultimo e nottetempo un trasporto in auto dalla capitale bosniaca a Spalato: arrivati alla frontiera croata suggerii al cardinale di mettere bene in evidenza la croce pettorale, perché da queste parti – gli dissi – è un lasciapassare anche più efficace del passaporto diplomatico. Si era nella fase transitoria tra la firma degli accordi di Dayton e l’implementazione del passaggio dei territori, di notte non si muoveva nessuno, e chi lo faceva agiva a proprio rischio e pericolo”.
La missione in Kosovo: un conflitto a parti rovesciate
Certo, poi, “anche la missione in Kosovo fu estremamente complessa e significativa per noi”, aggiunge: “A parti rovesciate, i serbi che prima erano gli aggressori, ora erano il gruppo più in difficoltà. E se in Bosnia eravamo più vicini alle popolazioni musulmane, in Kosovo fornimmo grande protezione agli ortodossi e ai loro monasteri che erano maggiormente presi di mira. In entrambi i casi un miscuglio di etnie e religioni in contrasto, anche se sono sempre stato convinto che queste ultime non fossero alla radice delle tensioni, per di più in una popolazione sostanzialmente laica dopo tanti anni di regime totalitario”, ma costituissero un abile pretesto per fomentare i vari nazionalismi: “i gruppi etnici venivano identificati con la fede che professavano, ma non era questa il principale motivo di scontro”.
La crisi del peacekeeping oggi
Il peacekeeping, di cui a inizio anni Novanta si parlava molto, sia nelle accademie che sui media, “ora è sparito dall’attenzione”, è un concetto in crisi. Quell’euforia e quel fiorire delle missioni di pace furono la conseguenza della fine della Guerra fredda: erano in capo all’Onu e giustamente si voleva avessero il beneplacito del Consiglio di sicurezza. Soprattutto Stati Uniti e Russia, non utilizzando il potere del diritto di veto, stabilirono così di risolvere le tante crisi fino a quel momento trascurate, come Angola e Mozambico. Poi purtroppo ci si è nuovamente impantanati”, ammette con amarezza.
Gli “operatori di pace” spesso (quasi) dimenticati
Sono tanti gli “operatori di pace” incontrati e conosciuti. Da padre Baldo Santi della Caritas a Santiago e la missionaria altoatesina Valeria Valentin nel Cile di Pinochet; dal nunzio polacco in Iraq, Marian Olés, al vicario apostolico in Cambogia, Yves-Marie Ramousse, e al diplomatico vaticano, Claudio Maria Celli, che costruiva “ponti” con il Vietnam; dai tanti esponenti di movimenti pacifisti che si adoperarono nei Balcani, i vescovi Luigi Bettazzi e Tonino Bello, e i “Beati costruttori di pace” di don Albino Bizzotto, al cappellano militare della Brigata Sassari, Mariano Asunis, che erigeva chiese in Kosovo, e piantava croci alte cinque metri a Nassiriya; fino ai preti e alle suore di frontiera a Timor Leste – padre Hilario Madeira, Tarcisius Dewanto, Francisco Soares, e le canossiane Erminia Cazzaniga e Celestina de Carvalho Pinto – uccisi perché non avevano voluto abbandonare i propri fedeli, ai barnabiti in Afghanistan che nell’infuriare della guerra civile a inizio anni ’90 decisero di rimanere. “Il pastore di una chiesa locale deve proteggere il suo gregge mentre un diplomatico vaticano deve tenere aperto un canale di dialogo con le autorità, anche nelle peggiori circostanze. Sono entrambi religiosi, fanno parte della stessa squadra, ma giocano in ruoli diversi”, è la convinzione di Angeli, appresa sul campo. Degli “operatori di pace” si fa quasi fatica a parlare con una certa profondità, soprattutto nel tempo presente, e nei media molto spesso non trovano spazio. “Forse è perché la parola ‘pace’ viene citata troppo, a volte a sproposito, viene anche abusata e alla fine subentra lo scetticismo”, spiega. Ciononostante, per tutti loro la fede non è davvero l’ultima speranza: rimane il presupposto su cui fondare una vita al servizio dell’altro.
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