Mario Luzi e quella fede che non fa disperare
Antonella Palermo - Città del Vaticano
Sono molte le celebrazioni organizzate in questi giorni in Italia per la ricorrenza dei vent’anni dalla scomparsa di Mario Luzi (Sesto Fiorentino, 20 ottobre 1914 – Firenze, 28 febbraio 2005). Poeta, drammaturgo, critico letterario, traduttore e critico cinematografico, Luzi è stato tra i massimi rappresentanti dell'ermetismo fiorentino. Nel 1999 fu l'autore delle quindici poesie recitate ad ogni stazione della Via Crucis pre-giubilare, al Colosseo, alla presenza di Giovanni Paolo II. Il 14 ottobre 2004, Luzi ci accoglieva nella sua casa sull’Arno per una conversazione che sarebbe stata trasmessa su Radio Vaticana in occasione dei novant’anni che il poeta avrebbe compiuto dopo qualche giorno. Pur affaticato, mostrava una straordinaria lucidità, ironia, affabilità, umiltà. I suoi occhi vecchi, ma luminosi, sapevano di maestro buono. Uomo mite, per sua stessa ammissione, pesava ogni parola.
La sofferenza, un pedaggio per “essere nell’essere”
“Si può anche ipotizzare una vita felice che non conosce né il dolore né la sofferenza – confidava - però è uno sforzo dell’immaginazione, è un eccesso del sogno. La sofferenza è un pedaggio che dobbiamo pagare per essere presenti nella vita, per essere nell’essere”. Così parlava quell'artista la cui poesia non evitava mai il dramma, tuttavia lo inseriva in un orizzonte più vasto dove esso non è l’ultima parola, non sigilla la vita. E parlava della sua fede - "un dono grazie al quale non ci si dispera mai totalmente" - ereditata dalla madre “meravigliosa”, e del rapporto tra due dimensioni che si generano reciprocamente: limitatezza dell’essere umano e “infinità” la quale, diceva, “si presenta periodicamente, ci richiama, ci affascina, ci sollecita, ma non ci dà mai delle risposte che possiamo ritenere definitive”.
Il male della guerra, frutto di “una volontà nefasta”
Una poesia, quella di Luzi, più ricca di domande che di affermazioni: lo diceva sovente lui stesso. E in effetti, come spiega il critico Daniele Piccini (uno dei massimi conoscitori dell'opera del poeta), nell’ultima produzione troviamo tantissimi interrogativi attraverso cui il poeta cerca di arrivare ad una affermazione unitaria. Come a intendere che, di fondo, c’è una unità divina del mondo che va oltre il fuoco della controversia, della contrapposizione. Luzi constatava peraltro quanto all’epoca si fossero “aggravate” alcune domande esistenziali: quelle sul male, per esempio, “una presenza tutt’altro che provvisoria nell’universo”, osservava. “Ho sempre considerato il male il rovescio del bene. Però oggi io, di fronte a certi episodi, penso che il male sia anche fuori dalla responsabilità dell’uomo. Come un’immanenza non ancora debellata”. E il male della guerra? “Quella invece è una volontà sinistra, una volontà nefasta, sbagliata”, scandiva.
Quei testi di Luzi letti da ex-terroristi
Era proprio questo uno dei temi affiorati nell’accenno all’eredità di Giovanni Paolo II, che ai tempi aveva appena varcato i 26 anni di pontificato e del quale Luzi riconosceva “una mente abbastanza aperta e coraggiosa da considerare l’umanità nel suo insieme, come un’unità da non lacerare con guerre e contrapposizioni”. Del resto egli aveva vissuto il trauma del conflitto, l’impatto della seconda guerra mondiale che aveva obbligato la sua lingua poetica, densa di ermetismo, ad andare a cercare un corpo a corpo più urgente con la realtà. E così fino agli anni di piombo, quando una cifra più marcatamente civile si riscontra nella poesia luziana che ritornava come dramma che riguardava una comunità. Di fatto, egli soffriva molto per le vicende nazionali attraversate dallo stragismo dei roventi anni Settanta. Quale il ruolo della poesia? “Tutto e nulla!”, rispondeva ai nostri microfoni. Tuttavia, vero è che Luzi ebbe modo di incontrare “persone che erano in clandestinità” o che stavano scontando la pena, e riferiva che proprio queste avevano in qualche modo beneficiato dalla lettura di alcuni suoi testi.
Un "estremo principiante", condizione che fa aderire al vero
In quella sua dimora, tra le sue amatissime carte, Luzi appariva più che mai un vecchio con la tenerezza di un bimbo che ha ancora tutto da imparare: del resto la Dottrina dell’estremo principiante – ultima sua raccolta di versi - esprimeva bene il bisogno di tornare sempre nella condizione di stupirsi di questa vita. “Penso che i drammi a cui assistiamo ci portino a desiderare questa nudità e semplicità. Bisogna rientrare nel vivente, nell’innocenza e nella forza del vivente. Con tutto quello che vediamo di orribile, il vivente è qualcosa che supera tutto”. Il canto dell’essere come uno sgorgare ininterrotto: questo infatti era diventata la poesia di Luzi perché prima di tutto era l’uomo Luzi capace di una umiltà creaturale disarmante. “Non possiamo essere così presuntuosi da aver capito tutto”, ammetteva. “Bisogna riconoscere che il più alto grado di consapevolezza è quello di non essere che umilissime creature presenti nel vivente. Credo che il principiante sia nella condizione più totale di aderenza alla vita e al vero”.
Vita e morte ricongiunte in una poesia paradisiaca
E la morte, come ci si fa i conti? “La morte si teme da giovani. Poi ci si abitua sia alla vita che alla morte. A un certo punto tutto il mondo che si è vissuto o quasi tutto, tutte le persone, sono già di là dalla siepe. Arriva un momento in cui quindi si è in continua corrispondenza tra queste due dimensioni. La morte è una specie di passo molto naturale che si deve fare. Poterlo fare da uno stato di serenità, di compiutezza, e anche di lucidità è augurabile rispetto a quelle circostanze avverse che possono umiliare, affliggere, provare”. E la serenità gli è stata concessa fino all'ultimo, a lui che tornava spesso al tema della ricongiunzione dei vivi e dei morti e che con la sua poesia della luce guardava alla meta paradisiaca come desiderio e non come nostalgia.
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