Cosa resta del mito fondativo degli Stati Uniti
Guglielmo Gallone - Città del Vaticano
Al centro di una sterminata prateria svetta Columbia, la personificazione femminile degli Stati Uniti d’America. La donna in abito bianco e dai lunghi capelli biondi ha una stella sulla fronte, un libro scolastico in mano, il filo del telegrafo sotto il braccio. Sullo sfondo, verso oriente s’intravede una città portuale circondata da ponti e velieri. In primo piano, al centro, campeggiano invece i coloni americani che, sedotti e trascinati dalla donna imponente, trainano locomotive, guidano carovane, arano la terra. In breve, si spostano verso ovest. Dove i pellerossa fuggono o, nella migliore delle ipotesi, aprono la strada al «far west».
Il progresso secondo l’America
Era il 1872 quando il pittore prussiano John Gast decide di rappresentare così il progresso americano, da cui il titolo del quadro «American Progress», e di trasporre in modo allegorico il «destino manifesto», l’idea secondo cui gli Stati Uniti hanno l’eccezionale missione di espandersi, diffondendo libertà e democrazia. Oggi, a poche ore dalla cerimonia di inaugurazione della quarantasettesima presidenza statunitense guidata dal repubblicano Donald Trump, ci si domanda cosa resta del mito fondativo americano. E non per il presidente-eletto in sé o per gli inediti scenari internazionali, quanto per le tante anime di questo Paese emerse negli ultimi anni. Gli statunitensi sanno ancora andare, tutti, proprio come i coloni rappresentati da Gast, nella stessa direzione? E qual è la direzione? Cosa s’intende ora per «American progress»? La vittoria nella competizione tecnologica con la Cina, la corsa allo spazio, la tenuta del fronte interno? È ancora possibile mettere d’accordo un hillbilly dei monti Appalachi e imprenditore californiano, non tanto su economia e politica, ma su cosa dev’essere l’America?
Crisi d'identità
«Gli Stati Uniti si trovano davanti a una crisi di identità che ha tanto le sue radici quanto i suoi effetti nella società americana», esordisce Lucio Caracciolo, direttore della rivista italiana di geopolitica “Limes”, parlando ai media vaticani. «Se nella seconda metà del Novecento la classe lavoratrice e la piccola borghesia si consideravano elemento portante del sogno americano, oggi non è più così. Coloro che hanno sempre avuto centralità nella storia americana vivono una forte condizione di disagio sociale, sono spesso incapaci di dialogare e disinteressati ad abitare i classici spazi della vita comunitaria. Accusano notevoli differenze nei livelli di ricchezza con la classe ricca-dominante. Ritengono di essere stati dimenticati a favore delle minoranze, privilegiate dai fanatici del politicamente corretto e da élites tanto snob quanto arroganti, intente a occuparsi solo di giustizia climatica, diritti delle minoranze o pace nel mondo — senza avere molto successo —, dimenticandosi invece delle esigenze sociali. Ecco perché vedono in Donald Trump, ossia in colui che si propone come artefice del cambiamento, la soluzione. Con una particolarità, però. Se nel 2016 Trump aveva vinto principalmente grazie a lavoratori dal colletto bianco o blu, uomini, bianchi, disoccupati e operai, oggi a questi si sono aggiunti ispanici, neri, giovani laureati e donne dei sobborghi. Ciò significa che i trumpiani non sono solo i repubblicani».
Un'epidemia di solitudine
Secondo Marco Bardazzi, giornalista e scrittore esperto di Stati Uniti, questo allargamento dell’elettorato sta a significare che «gli americani hanno bocciato tanto l’establishment quanto le scelte dell’amministrazione Biden. Se ci si ferma ai meri dati economici, un cambiamento del genere appare ingiustificabile. L’immigrazione è ai dati più bassi dal 2020 e l’inflazione è stata contenuta. Ma questa non è la percezione degli americani. La maggior parte di loro crede di vivere peggio rispetto al passato, l’ormai decadente classe media vive una vera e propria epidemia di solitudine, che si traduce in un’esplosione di mortalità fuori controllo fatta di violenze, alcol, droga e suicidi. Un tempo, le comunità locali facevano da mediatrici fra il singolo e la collettività, mentre oggi fanno i conti con la scomparsa degli organi di informazione nei piccoli centri e con la profonda crisi delle Chiese protestanti. Il rischio è quindi pensare che le ultime elezioni americane siano state simili alle precedenti. Non è così. E, riprendendo le parole di Papa Francesco, credo che ci troviamo di fronte a “un cambiamento d’epoca”. Lo dimostrano i tanti inediti che non dobbiamo mai dimenticare: è la prima volta in cui un presidente torna alla Casa Bianca — ci fu un precedente, Grover Cleveland, rieletto nel 1893 ma in circostanze diverse —, è la prima volta in cui vince un condannato, in cui un candidato — peraltro un presidente in carica — si ritira, in cui uno dei due candidati viene aggredito con armi da fuoco».
Raccontare l'America è più difficile
Dinamiche tutt’altro che isolate alla democrazia americana, se pensiamo alle crisi in Francia o Germania, ma che Trump è stato capace di cavalcare. Perché, secondo Paolo Mastrolilli, capo della redazione Nord America del quotidiano “la Repubblica”, «per quella parte d’America che si sente dimenticata quanto trascurata dalla politica, Trump è elemento di salvezza: parla di immigrazione, di disoccupazione, di crollo dell’educazione scolastica e di crisi della famiglia, del degrado alimentato dal narcotraffico e dalla violenza. I democratici stanno scontando tutta l’incapacità — maturata almeno dall’amministrazione Clinton in poi — di saper trovare soluzioni a problemi quotidiani e comprensibili per ogni essere umano. Un esempio su tutti: la globalizzazione ha aumentato le differenze sociali ed economiche, gli operai hanno perso prospettive di vita, ma la tanto vituperata riconversione dei lavoratori è stata efficace solo in California. L’amministrazione Biden ha tentato di prendere coscienza di questi problemi ma, anche per cause esogene, ha dato l’impressione di non aver fatto abbastanza». Ovviamente, prosegue Mastrolilli, «ciò sta rendendo più difficile raccontare l’America. Innanzitutto, sul piano istituzionale sembra modellarsi un Paese nuovo: un tempo c’erano due partiti sì diversi ma che, alla fine, la politica veniva intesa come arte del compromesso e del possibile. Oggi è rarissimo trovare misure votate in modo bipartisan al Congresso. Di riflesso, gli americani fanno sempre più difficoltà a dialogare: diffidano dai media tradizionali, cambiano contea o città in base al voto, si concentrano in spazi dove tutti pensano allo stesso modo, neppure moglie e marito trovano un punto d’incontro quando si parla di politica».
Effetti globali della crisi americana
La spaccatura sembra così profonda da diventare insolubile. «Ed è questo che più mi inquieta — riprende Bardazzi —, nel 2026 gli Stati Uniti compiranno 250 anni. Nel 1976, in occasione del due-centenario dalla dichiarazione d’indipendenza, il Paese usciva dal Watergate e dalla guerra in Vietnam, era alle prese con la crisi di Suez, ma si è riunito per ripartire. Oggi gli americani fanno fatica a riconoscersi. Da un lato, sono accecati dalle frammentazioni identitarie. Dall’altro persiste il classico spirito pionieristico americano, capace di guardare oltre, persino allo spazio, e incarnato da imprenditori come Jeff Bezos, Elon Musk o Mark Zuckerbeg — che insieme valgono 900 miliardi di dollari. Il grande interrogativo sta tutto qui: dopo 250 anni, l’esperimento americano resisterà oppure rischia di saltare?» È una domanda su cui pure gli europei sono chiamati a riflettere, cercando di superare quel sentimento autocentrato che spesso li ha condannati a restare fermi. Perché, conclude Lucio Caracciolo, «crisi americana è inevitabilmente crisi mondiale».
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui