La Comece all’UE: il matrimonio è tra uomo e donna
Giovanni Zavatta – Città del Vaticano
Una decisione che sembra spingere la giurisprudenza oltre le competenze dell’Unione Europea e che potrebbe avere "un impatto sui sistemi giuridici nazionali in materia di diritto di famiglia" ed "esercitare pressioni affinché questi vengano modificati", creando una convergenza degli effetti del diritto matrimoniale nonostante l’UE non abbia alcun mandato per armonizzare il diritto di famiglia. La Commissione degli episcopati dell’Unione Europea (Comece) è intervenuta oggi, 9 dicembre, con una dichiarazione della presidenza, sulla recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea relativa al riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso tra gli Stati membri. Sentenza, scrivono i vescovi, che potrebbe avere "un impatto sulla certezza del diritto" e portare "sviluppi negativi in altri settori sensibili", aprendo la strada a "futuri approcci giuridici simili in materia di maternità surrogata".
La sentenza dell’Unione europea
Al centro della vicenda c’è la causa Wojewoda Mazowiecki (C-713/23). Nel 2018 due cittadini polacchi residenti in Germania, uno dei quali anche con cittadinanza tedesca, si sono sposati a Berlino. Volendo trasferirsi in Polonia come coppia sposata, hanno chiesto che il loro atto di matrimonio redatto in Germania fosse trascritto nel registro civile polacco affinché fosse riconosciuto. La richiesta è stata respinta in quanto la legge polacca non consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La questione è giunta alla Corte di Giustizia dell’UE la quale, con sentenza del 25 novembre scorso, ha decretato che, sebbene le norme relative al matrimonio rientrino nella competenza degli Stati membri, questi ultimi sono tenuti a rispettare il diritto dell’Unione Europea nell’esercizio di tale competenza. Il rifiuto di riconoscere un matrimonio tra due cittadini dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro dove hanno esercitato la loro libertà di circolazione e soggiorno, può causare - secondo i giudici - gravi inconvenienti a livello amministrativo, professionale e privato, costringendo i coniugi a vivere come persone non sposate nel loro Stato membro di origine. Per tale motivo, la Corte ritiene che tale rifiuto sia contrario al diritto dell’UE. Tuttavia, precisano i giudici, l’obbligo di riconoscimento non impone a tale Stato membro di prevedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso nel proprio diritto nazionale ma solo di agevolare le procedure relative a tale riconoscimento. Di conseguenza, poiché la trascrizione è l’unico mezzo previsto dal diritto polacco affinché un matrimonio contratto in un altro Stato membro sia effettivamente riconosciuto dalle autorità amministrative, la Polonia - concludono - è tenuta ad applicare tale procedura indistintamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e a quelli contratti tra persone di sesso opposto.
I vescovi: il matrimonio è tra uomo e donna
Le considerazioni espresse dalla Comece nella sua dichiarazione "sono radicate nella visione antropologica della Chiesa, basata sulla legge naturale, del matrimonio come unione tra un uomo e una donna". Pur rispettando il ruolo della magistratura dell’UE, i vescovi si sono sentiti in dovere di commentare alcuni aspetti della sentenza, "rilevando con preoccupazione il suo impatto su questioni che sono al centro delle competenze nazionali". Un tema, quello del diritto di famiglia, che ha implicazioni transfrontaliere e che perciò dovrebbe prevedere "un approccio prudente e cauto" ed "evitare influenze indebite sui sistemi giuridici nazionali". La sentenza emessa il 25 novembre, invece, "sembra spingere la giurisprudenza oltre i limiti delle competenze dell’UE". La Commissione degli episcopati ricorda che l’articolo 9 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che "il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio". Matrimonio che, negli ordinamenti di vari Stati membri, è definito come l’unione tra un uomo e una donna. La Corte riconosce che l’obbligo affermato nella sua sentenza "non pregiudica l’istituto del matrimonio nello Stato membro d’origine, che è definito dal diritto nazionale", e conferma che "le norme relative al matrimonio rientrano nella competenza degli Stati membri e il diritto dell’Unione non può pregiudicare tale competenza". Tali Stati membri "sono quindi liberi di prevedere o meno, nel loro diritto nazionale, il matrimonio per persone dello stesso sesso". Tuttavia - ed è qui che nascono le preoccupazioni dei vescovi - la Corte di giustizia "restringe rigorosamente il significato di tale affermazione sottolineando che, nell’esercizio di tale competenza, ogni Stato membro deve rispettare il diritto dell’UE, in particolare le disposizioni dei trattati sulla libertà dei cittadini di circolare e soggiornare nel territorio degli Stati membri". Una presa di posizione che rischia di impoverire il significato dell’articolo 9 della Carta dei Diritti fondamentali, ponendo in secondo piano le "identità nazionali" degli Stati membri, in questo caso in materia di definizione del matrimonio. Stati che, conclude la Comece, "non saranno in grado di prevedere in modo chiaro quali parti del loro diritto di famiglia rimarranno di loro competenza".
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