Caritas, i 20 anni del progetto “Ferite invisibili”: quando accogliere è già curare
Matteo Frascadore – Città del Vaticano
Non c’è “carità senza giustizia”. Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, lo ripete da tempo, e lo ha fatto anche ieri, 5 dicembre, presentando il rapporto “Accogliere è già curare”, presso il Polo della carità “Don Pino Puglisi”, in occasione dei 20 anni di attività del progetto “Ferite invisibili” all’interno dell’Ambulatorio Caritas per la cura di vittime di violenza e torture.
I vent’anni di attività
Il progetto è nato nel 2005 in via Marsala per poi affrontare alcuni spostamenti finché non si è stabilito, nel 2024, all’interno della struttura collocata nel Tiburtino III, in passato un convento ristrutturato con i fondi del Pnrr. Nei vent’anni di attività sono state 531 le persone che hanno varcato la soglia di Ferite Invisibili, provenienti da 61 Paesi diversi, con un’età media di 26 anni, dato che, spiega Giustino Trincia a Vatican News, sorprende più di tutti. Tra gli ospiti anche 157 minori. Sono “persone che scappano per un futuro migliore, che cercano di vedere la vita con fiducia, che cercano la libertà”, riconoscendo come ci sia anche “una bagarre ideologica estremamente condizionata da interessi di carattere elettorale. Qualcosa di inaccettabile”. Il direttore di Caritas Roma definisce il disagio di chi si affaccia presso la loro realtà come una serie di ferite “sul corpo e sull’anima”, riconoscendo poi l’impegno della Chiesa attraverso la Caritas e questo progetto, volto a donare speranza a tantissimi ragazzi con l’obiettivo di “aiutarli ad acquisire consapevolezza dei loro diritti, ad acquisire strumenti per la loro tutela”.
I pazienti di “Ferite Invisibili”
Quasi la metà dei pazienti accolti (46%) da Ferite invisibili sono richiedenti protezione internazionale e la diagnosi, nell’80% dei casi, è quella di un disturbo post-traumatico, mentre oltre il 10% soffre di depressione. In media, ogni paziente ha partecipato a 13 sedute, per un totale di 6877 colloqui. “La psicotraumatologia, soprattutto da violenza, è sempre esistita ma solo da pochi anni la si riconosce come un vero e proprio problema clinico. Si tratta di un paradosso”, ammette Marco Mazzetti, psichiatra e coordinatore scientifico dell’intero progetto. La situazione clinica viene riconosciuta come “particolare dove la gravità dei sintomi non è accompagnata dalla gravità della prognosi. I pazienti possono essere molto disturbati ma anche guarire con facilità”. “Il progetto di vita è parte integrante della guarigione”, evidenzia il rapporto, che affronta anche il trauma transgenerazionale e il ruolo delle somatizzazioni come linguaggio del dolore. Inoltre, il 16,3% è risultato privo di scolarizzazione; al momento della prima visita, il 17,1% non parlava italiano, il 56,8% lo parlava in modo insufficiente, il 23,0% in modo sufficiente e il 3,3% molto bene.
Il rapporto fornisce strumenti di base per capire e riconoscere in particolari, tra coloro che sono accolti nelle strutture d’accoglienza, chi è stato traumatizzato ed ha subìto violenza nel proprio percorso migratorio, indicando strategie relazionali utili sia per l’identificazione precoce, sia per una presa in cura efficace. Si tratta di un’attività clinica affiancata da iniziative di formazione, ricerca e screening della popolazione a rischio.
Ogni persona porta con sé una storia unica da ascoltare e accompagnare. Ferite invisibili vuole ricordare questo, evitando la narrazione pubblica che si riduce spesso a dati e cifre. Un primo passo per curare i traumi più profondi e invisibili e per trasformare in speranza una dignità ferita, dove l’accoglienza diventa parte integrante del percorso terapeutico.
Grazie per aver letto questo articolo. Se vuoi restare aggiornato ti invitiamo a iscriverti alla newsletter cliccando qui