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Il cardinale Pizzaballa: per raggiungere la pace va ascoltato il dolore degli altri

Il patriarca di Gerusalemme dei latini, ai media vaticani, parla della speranza che il piano Usa si esprima in soluzioni che portino a “prospettive più chiare” e a dare sollievo alla popolazione palestinese di Gaza. Esprime il suo dolore per i continui episodi di violenza perpetrati dai coloni, anche a danno dei cristiani, invita i pellegrini a tornare in Terra Santa e auspica la ripresa del dialogo tra i leader religiosi per ritrovarsi, ebrei, musulmani e cristiani, “l’uno nell'altro"

Andrea Tornielli e Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

A Gaza, anche nelle ultime ore sotto i bombardamenti israeliani, è importante che si proceda verso la fase 2 del piano degli Stati Uniti, che porti a un processo politico per il raggiungimento della soluzione a due Stati. Le Nazioni Unite, dopo l’adozione della risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza, si impegnano ad andare avanti e a “tradurre lo slancio diplomatico in misure concrete e urgenti sul campo”. Una concretezza che dovrà passare per una serie di passi che, è la speranza di molti, possano davvero significare un passaggio fondamentale per i palestinesi stremati dalla guerra, devastati dalla distruzione. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei latini, ospite dei media vaticani, sollecita la comunità internazionale ad avere il “coraggio” di imporre soluzione per portare sollievo ad un popolo in ginocchio dopo due anni di bombardamenti e che ora subisce le ripercussioni dell’inverno.

Ascolta l'intervista con il cardinale Pierbattista Pizzaballa

Eminenza, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con l'astensione di Russia e Cina, ha votato il piano di pace per Gaza proposto dal presidente americano Trump. Il governo dello Stato di Palestina approva il piano, mentre Hamas dice che non intende disarmare a quelle condizioni. Come giudica la decisione dell'ONU e come vede la situazione al momento? Ci sono speranze?

La decisione dell'ONU non cambia nulla nel territorio, però è un riconoscimento della comunità internazionale, è un piano che, come tutti i piani, non potrà mai essere perfetto, però è quello che c'è ed è l'unico che in questo momento ha fermato l'espandersi della guerra e che può dare un minimo di prospettive alla popolazione palestinese e non solo. Per cui diciamo che il voto dell'ONU è una sorta di consacrazione generale della comunità internazionale che, seppur se non cambia nulla, comunque è importante dal punto di vista ideale e anche politico generale. Per quanto riguarda poi la vita nel territorio e l'implementazione concreta, abbiamo saputo fin dal principio che sarebbe stato molto difficile, e che sarà ancora molto difficile, vedere realizzati i vari punti del piano di Trump. Sappiamo che Hamas non ha alcuna intenzione di consegnare le armi. Penso che anche Israele non abbia tanta voglia di ritirarsi totalmente dalla Striscia. Diciamo che le due parti sono quelle che hanno dovuto accettare questo piano, ma hanno, come dire, serie difficoltà. Bisogna insistere. Gli Stati Uniti sono gli unici che, con i Paesi arabi e la Turchia, possono riuscire a imporsi, perché in questo momento la buona volontà non è sufficiente. Bisogna avere anche il coraggio di imporre politicamente delle soluzioni che portino poco alla volta a delle prospettive più chiare. Ma ci vorrà molto tempo e sarà molto faticoso.

Gaza negli ultimi tempi sembra essere uscita dall'attenzione dei media. Però dalla Striscia continuano ad arrivare notizie molto gravi e allarmanti sulla sofferenza della popolazione, anche a causa del maltempo, della pioggia e del fango, e questo lo ha testimoniato anche il parroco, padre Gabriel Romanelli. Qual è la situazione? Gli aiuti possono entrare? Cosa si può fare concretamente per aiutare i palestinesi?

La situazione non è cambiata molto dal punto di vista della vita ordinaria. L'unica cosa che è cambiata, e di cui ringraziamo Dio e quelli che hanno potuto ottenerlo, è la fine dei bombardamenti a tappeto. Gli aiuti entrano più di prima, questo sicuramente in maniera più stabile, ma sicuramente non in misura sufficiente rispetto ai bisogni, medicine, ospedali, le tende, le coperte, con l’arrivo dell’inverno e delle piogge.  C'è bisogno di acqua, sia ben chiaro, però a Gaza acqua significa fango dentro una situazione già problematica. Diciamo che nella vita ordinaria non è cambiato nulla, le scuole non ci sono e gli ospedali funzionano parzialmente, è ancora tutto da ricostruire. Siamo ancora nella prima fase dei punti e le prossime fasi saranno: pulire dalle macerie; seppellire i morti che sono sotto le macerie; avere un minimo di programmazione per la ricostruzione, che richiederà anche una governance che non c'è e non si saprà chi sarà. È tutto ancora da fare, e mentre si discute all'ONU e altrove, la gente resta nelle condizioni di sempre, che sono ahimè, drammatiche.

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa   (AFP or licensors)

Anche dalla Cisgiordania arrivano notizie allarmanti, purtroppo per le continue violenze dei coloni che hanno bruciato moschee, assaltato villaggi, impedito la raccolta delle olive ai palestinesi di quella parte dello Stato di Palestina. Anche se sembra che ci sia un minimo ridestarsi di una coscienza sulla inaccettabilità di questi fatti anche in Israele, però mancano prese di posizione forti a livello internazionale per fermare questa deriva che rende oggettivamente impraticabile per il futuro, qualsiasi ipotesi di Stato palestinese che abbia un minimo di continuità territoriale. Cosa può dirci della situazione di questa parte della Palestina? Che cosa potrebbe o dovrebbe fare secondo lei, la comunità internazionale? E anche che cosa possiamo fare noi?

La situazione nei Territori si sta aggravando ogni giorno, sempre di più. Ho le foto dell'aggressione che sono avvenute per l'ennesima volta proprio nel nostro villaggio cristiano di Taybeh, con case e macchine assaltate, vetri rotti, penumatici forati. Quello che è accaduto questa notte a Taybeh, che è grave, succede quotidianamente in tanti altri villaggi della Palestina. Ho ricevuto anche pochi giorni fa dal villaggio di Aboud, che è un villaggio abbastanza isolato, una richiesta di aiuto e non solo dalla nostra parrocchia ma da tutta la comunità, dal sindaco e così via, perché non sanno a chi rivolgersi. Questo senso di impotenza aumenta ancora di più su tutti il peso di questa situazione, perché sembra veramente che non ci sia nessuno a cui appellarsi, a cui chiedere giustizia. È vero che recentemente ci sono stati gli scontri anche tra i coloni e l'esercito che cercava di ripristinare un po’ di ordine, ma sono episodi rari questi, il più delle volte si deve assistere alla mancanza totale di rispetto della legge, di un minimo di legge e di rispetto dei diritti umani. La nostra preoccupazione è che questa situazione continui e si aggravi. Cosa può fare la comunità internazionale? Deve parlare! Come si è parlato molto di Gaza, giustamente, e adesso ahimè se ne parla di meno, bisogna parlare anche di quella situazione dei Territori. Molti Paesi hanno riconosciuto, anche ultimamente, la Palestina come Stato, in maniera simbolica perché ancora non c'è, ora però bisogna alzare l'attenzione e dire che non basta riconoscere, bisogna anche dire quali sono le condizioni e cosa si deve fare. Non si può parlare di un processo politico se poi ci sono continuamente queste aggressioni e queste difficoltà. Lo dico con molto dolore, perché non mi piace sempre denunciare e parlare contro, però è la verità e non posso tacere su questo.

Eminenza, lei recentemente ha lanciato un appello affinché riprendano i pellegrinaggi in Terra Santa che ancora oggi sono fermi, con tutte le gravi ricadute che ci sono sull'economia palestinese, in particolare anche per la situazione dei cristiani. Che cosa si può dire a questo riguardo? Si può ripetere questo invito a tornare ad essere pellegrini nei luoghi dove Gesù ha vissuto, è morto ed è risorto?

Assolutamente! È vero che noi parliamo di Gaza, parliamo di Cisgiordania, però è anche vero che sono situazioni che sempre sono fuori dal giro ordinario dei pellegrini. La zona di Betlemme, che è importante per i pellegrini, ha bisogno della loro presenza, il pellegrinaggio ora è sicuro, con il cessate il fuoco sono finiti non solo i bombardamenti a Gaza, ma anche gli attacchi missilistici dallo Yemen, diciamo che gli allarmi non ci sono più, per cui il pellegrinaggio ora può essere sicuro. Quei pochi pellegrini che sono venuti l'hanno potuto constatare. Io lo ripeto: la Chiesa universale è stata molto vicina a noi in questi anni con la preghiera, con tante forme di solidarietà anche concreta. Ora bisogna iniziare una nuova fase, dove l'aiuto concreto è testimoniato anche dalla presenza fisica concreta che, oltre a essere un beneficio per chi ha il dono, ha la possibilità, di avere il pellegrinaggio, porta anche il sorriso in tante famiglie che hanno bisogno non solo di aiuto economico, ma anche di vedere la presenza dei loro fratelli e sorelle cristiani in Terra Santa. Siamo nell'anno giubilare che ormai sta finendo, c'era molta speranza che in questo anno potesse esserci uno sguardo non solo su Roma, ma anche su Gerusalemme. Sono due città legate l'una all'altra e non possiamo aspettare il prossimo Giubileo, quindi bisogna riprendere il santo viaggio e ritornare ad affondare il nostro sguardo sulle nostre radici di fede, che sono anche una forma di solidarietà e di fratellanza cristiana.

Abbiamo ancora negli occhi le terribili immagini degli ostaggi di Hamas sotto i tunnel. Però abbiamo anche notizie, proprio di questi giorni, di altre situazioni, quelle senza immagini, che ci dicono che dal 7 ottobre ad oggi, nelle carceri israeliane, sono morti 98 detenuti palestinesi - ci sono denunce per violazione dei diritti umani – il che vuol dire un morto ogni quattro giorni, praticamente. Come commenta questi dati?

Sono dati allarmanti. Diversi giornali, anche in Terra Santa, in Israele, ne hanno parlato, anche altri media, pochi a dire il vero, lo hanno fatto. Diciamo che, in generale, il clima di violenza si respira ovunque, nel modo di pensare. Tante volte ho detto che siamo stati invasi da tanto odio, che poi l'odio non è soltanto un sentimento, diventa anche azione, un modo di relazionarsi con l'altro. Il senso di odio, di vendetta, di rancore, si esprime anche in queste forme. Io non ho una documentazione precisa, quindi mi baso su quello che è stato detto, ma è vero che ci sono tantissimi che sono morti nelle carceri, e comunque diciamo che non sono carceri svedesi.

Il cardinale Pizzaballa davanti alla distruzione di Gaza nel 2024
Il cardinale Pizzaballa davanti alla distruzione di Gaza nel 2024

Eminenza, recentemente intervenendo ad un convegno, lei ha sottolineato che purtroppo in questi due anni di guerra spesso i leader religiosi hanno lanciato dei messaggi uguali, se non simili, a quelli dei leader politici, mettendo di fatto in crisi anche il dialogo interreligioso. Qual è il ruolo delle religioni o quale dovrebbe essere in questo contesto?

Sì, l'ho detto diverse volte e lo ripeto ancora una volta con un po’ di sofferenza e di dolore. Il dialogo interreligioso deve riprendere, perché fa parte anche della nostra identità religiosa, nessuna religione è un'isola. Per cui abbiamo bisogno di riprenderlo e di dare questa testimonianza come leader religiosi, anche come comunità religiose, l'uno nei confronti dell'altro, soprattutto in Medio Oriente, dove la religione ha un ruolo identitario e comunitario fondamentale, nella vita civile, nella vita sociale e anche nella vita politica. Ed è un fatto che, con poche eccezioni, la gran parte dei leader religiosi locali non ha detto nulla, e al momento di parlare parlava ai suoi esclusivamente di sé e della propria prospettiva, senza nessuno sguardo sull'altro. E se c'era uno sguardo sull'altro era uno sguardo negativo, di difesa o di accusa. Ecco, tutto questo è preoccupante. Dobbiamo uscire da questo circolo vizioso, e non mi riferisco solo ad ebrei e musulmani, ci siamo dentro anche noi, non dobbiamo fare i bravi e i buoni rispetto agli altri. Dopo il 7 ottobre abbiamo bisogno di riprendere il dialogo, tenendo però presente non solo quello che ci siamo detti nel passato, ma anche quello che non ci siamo detti in questi due anni e perché, per ripartire anche dal cercare di ascoltare. Una cosa che ho detto diverse volte, e che è molto faticosa, è che non si deve partire dalle analisi, ma che occorre ascoltare l'uno il dolore dell'altro, perché credo che tutti siano veramente affaticati, colpiti dal loro dolore. E però preoccupa anche la difficoltà o l'impossibilità a vedere il dolore degli altri. Il vittimismo è uno dei problemi che abbiamo, ciascuno si sente l'unica e sola vittima e l'altro il carnefice. Invece dobbiamo uscire da questa prospettiva. È l'impegno che ci dobbiamo prendere. Le cose non cambiano da sole cambiano se qualcuno apre la strada. Ecco, dobbiamo aprire, riaprire, questa strada. Sarà faticoso, ma dobbiamo farlo, il compito del leader religiosi è proprio questo. Non puoi guardare a Dio e negare l'altro però l'abbiamo fatto.

Don Tonino Bello diceva che la guerra inizia con la dissolvenza del volto dell'altro. Forse potremmo dire che la pace inizia ascoltando il dolore dell'altro…

Assolutamente. Se tu riconosci l'altro, riconosci anche te stesso. Se neghi l'altro, neghi anche te stesso. Se si dissolve il volto dell'altro, alla fine dissolvi anche te stesso. Allora, dobbiamo guardare tutti a Dio e ritrovarci l'uno nell'altro.

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19 novembre 2025, 12:40